Kiarostami torna nell’Iran rurale, questa volta per raccontare la storia di una troupe venuta da Teheran per documentare un rito funebre in un piccolo villaggio. Ostacolo principale: la particolare ritrosia della signora “designata” a consegnarsi alle braccia del tristo mietitore. Ritroviamo qui il tema dello sguardo intrusivo: l'occhio civilizzato, ordinato e razionale del regista cittadino si pone in contrasto con i ritmi, le usanze e il concetto stesso di tempo che imperano nei luoghi incontaminati dell’Iran rurale. Parafrasando Houllebecq, questa è la visione, l'occhio invasivo di un uomo civilizzato, che vive per e in funzione della morte come evento avverso, un nemico da sconfiggere. L'uomo senza nome porta il suo tempo urbano, ma rimane sopraffatto dal ritmo della campagna: il paesaggio rurale si impossessa di lui anche quando cerca campo per il telefono, rimanendo sconvolto dalla natura circostante, da quel tutto che governa e si governa secondo regole tutte sue, secondo tempi dilatati di perenne attesa, ma anche di perenne vita. Così delle ragioni iniziali che lo hanno condotto al villaggio, rimane la scoperta di un mondo primigenio ma a lui tremendamente sconosciuto, un concetto di morte come madre e non come nemico. A differenza dell'ultimo capitolo della trilogia di koker, lo sguardo non è quello meramente documentaristico, ma quello intrusivo e giudicante di una presunta civilizzazione, che tratta il tema della morte, del tempo e dello spazio , secondo regole che vengono vinte in un luogo che appare solamente prigioniero di se stesso, quando invece è libero come il vento. L'assenza si manifesta nello scavatore, nella troupe che non si vede, nella morte che non avviene. Nel vento che ci porterà via.


Kiarostami torna nell’Iran rurale, questa volta per raccontare la storia di una troupe venuta da Teheran per documentare un rito funebre in un piccolo villaggio. Ostacolo principale: la particolare ritrosia della signora “designata” a consegnarsi alle braccia del tristo mietitore. Ritroviamo qui il tema dello sguardo intrusivo: l'occhio civilizzato, ordinato e razionale del regista cittadino si pone in contrasto con i ritmi, le usanze e il concetto stesso di tempo che imperano nei luoghi incontaminati dell’Iran rurale. Parafrasando Houllebecq, questa è la visione, l'occhio invasivo di un uomo civilizzato, che vive per e in funzione della morte come evento avverso, un nemico da sconfiggere. L'uomo senza nome porta il suo tempo urbano, ma rimane sopraffatto dal ritmo della campagna: il paesaggio rurale si impossessa di lui anche quando cerca campo per il telefono, rimanendo sconvolto dalla natura circostante, da quel tutto che governa e si governa secondo regole tutte sue, secondo tempi dilatati di perenne attesa, ma anche di perenne vita. Così delle ragioni iniziali che lo hanno condotto al villaggio, rimane la scoperta di un mondo primigenio ma a lui tremendamente sconosciuto, un concetto di morte come madre e non come nemico. A differenza dell'ultimo capitolo della trilogia di koker, lo sguardo non è quello meramente documentaristico, ma quello intrusivo e giudicante di una presunta civilizzazione, che tratta il tema della morte, del tempo e dello spazio , secondo regole che vengono vinte in un luogo che appare solamente prigioniero di se stesso, quando invece è libero come il vento. L'assenza si manifesta nello scavatore, nella troupe che non si vede, nella morte che non avviene. Nel vento che ci porterà via.


Kiarostami torna nell’Iran rurale, questa volta per raccontare la storia di una troupe venuta da Teheran per documentare un rito funebre in un piccolo villaggio. Ostacolo principale: la particolare ritrosia della signora “designata” a consegnarsi alle braccia del tristo mietitore. Ritroviamo qui il tema dello sguardo intrusivo: l'occhio civilizzato, ordinato e razionale del regista cittadino si pone in contrasto con i ritmi, le usanze e il concetto stesso di tempo che imperano nei luoghi incontaminati dell’Iran rurale. Parafrasando Houllebecq, questa è la visione, l'occhio invasivo di un uomo civilizzato, che vive per e in funzione della morte come evento avverso, un nemico da sconfiggere. L'uomo senza nome porta il suo tempo urbano, ma rimane sopraffatto dal ritmo della campagna: il paesaggio rurale si impossessa di lui anche quando cerca campo per il telefono, rimanendo sconvolto dalla natura circostante, da quel tutto che governa e si governa secondo regole tutte sue, secondo tempi dilatati di perenne attesa, ma anche di perenne vita. Così delle ragioni iniziali che lo hanno condotto al villaggio, rimane la scoperta di un mondo primigenio ma a lui tremendamente sconosciuto, un concetto di morte come madre e non come nemico. A differenza dell'ultimo capitolo della trilogia di koker, lo sguardo non è quello meramente documentaristico, ma quello intrusivo e giudicante di una presunta civilizzazione, che tratta il tema della morte, del tempo e dello spazio , secondo regole che vengono vinte in un luogo che appare solamente prigioniero di se stesso, quando invece è libero come il vento. L'assenza si manifesta nello scavatore, nella troupe che non si vede, nella morte che non avviene. Nel vento che ci porterà via.

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